Verso la fine delle barriere geografiche. In questo quadro si deve compiere ogni sforzo affinché l’e-commerce non resti imbrigliato in una fitta maglia di regole disomogenee e complicate che soffocano l’evoluzione e che, se non superate, renderanno il Digital Single Market solamente un sogno irrealizzato.
l 2016 è stato un anno di transizione per il settore dell’e-commerce, durante il quale sono avvenuti cambiamenti importanti che hanno coinvolto gran parte delle componenti dell’ecosistema del nostro settore.
Stanno cambiando in maniera rilevante i modelli di business delle imprese e sempre più spesso vengono superate le barriere fisiche con le quali, fino a oggi, il settore ha dovuto confrontarsi.
Per descrivere il fenomeno la parola chiave da usare racchiude in sé il concetto di “cross”: cross canalità, cross border e cross device.
I cambiamenti in atto sono fortemente guidati dai nuovi comportamenti dei consumatori che, grazie ad un’offerta sempre più ampia e a un accesso facilitato all’informazione e ai prodotti, possono acquistare da altri paesi, confrontare i prodotti sia nel canale fisico che in quello digitale e, non ultimo, decidere se effettuare l’acquisto su un PC o, come sempre più spesso accade, attraverso il proprio smartphone.
In questo contesto, emerge con forza il fattore caratterizzante del periodo storico che viviamo: l’inizio di una vera globalizzazione dei mercati in un’ottica di Digital Single Market.
L’odierno sistema Italia, a dire il vero, non ha saputo cogliere le numerose opportunità offerte dal digital export. Il ritardo del nostro paese nell’esportazione delle merci e dei servizi attraverso il canale digitale è la conseguenza di un background regolamentare e culturale ormai vetusto: difficilmente si arriverà ad un cambiamento se si procede a singoli passi e non si interviene con provvedimenti di sistema.
Per meglio comprendere alcuni dei motivi legati alle difficoltà di sviluppare un mercato d’oltralpe, basti pensare a quanto incide la dimensione di un’impresa sulla politica industriale adottata: le aziende italiane di e-commerce sono, in gran parte, medio-piccole; non hanno abbastanza risorse per fare investimenti su nuovi canali e non sempre possono mettere a bilancio l’ampliamento della loro rete di vendita.
Per gli stessi motivi esse faticano ad aprire le porte alle transazioni europee o internazionali, ed inquadrano i mercati esteri come un obiettivo irraggiungibile.
Vendere cross-border comporta, per una realtà industriale, dover affrontare differenze culturali, assumere nuovo personale, formarlo adeguatamente sotto il profilo linguistico e sociale, strutturare un adeguato sistema di consegna transfrontaliera dei pacchi efficiente ma che non sia eccessivamente oneroso, dotarsi di un servizio di customer care in grado di coordinare i reclami, possedere un sistema di management degli ordini che contempli le modalità migliori per la gestione dei resi provenienti da tutta Europa e oltre.
Ma soprattutto, superare le barriere, vuol dire porsi il problema dell’impatto della regolamentazione vigente in Paesi diversi dall’Italia, ed essere in grado di affrontare le differenze senza soccombere.
Un recente studio promosso da Ecommerce Europe, associazione europea che vede tra i suoi soci fondatori Netcomm, dimostra come l’impatto regolamentare sia determinante nel processo decisionale di un’impresa che, a valutazioni concluse, sceglie di chiudersi entro i confini nazionali.